Mostra antologica a Noventa Padovana, 1998: Orazio è il primo a destra.
Lei è nato a Noventa. In quale zona abitava?
Verso Noventana. Mio padre era l'autista di Mattioli, quindi abitavamo nella loro villa. Poi lui è morto, ci siamo trasferiti in via Cappello, vicino all'autostrada. E lì sono rimasto finché non mi sono sposato.
Eravate vicini di casa con Orlando?
Sì, sì. Quando sono arrivato io lui era già nel mondo, diciamo così. Era stravagante, diverso dal mio carattere, ma comunque sempre generoso, molto aperto, imprevedibile se vuole, aveva un suo modo. Era strano però buono di temperamento, soprattutto se gli altri erano in difficoltà. Siamo quasi cresciuti assieme, alla sera ci trovavamo con gli amici in casa di Vasco Baldan, che era proprio in centro a Noventa: era la casa del ritrovo e delle nostre scorribande. E io ero il più giovane. Orlando era un tipo completamente indipendente, se quello che pensava non era accettato, si ribellava. Ad esempio con i Benincà, i padroni de “La Palanca”: si trovava bene a lavorare con loro, ma se avevano un comportamento sbagliato reagiva, non si presentava al lavoro e lo rivedevano dopo qualche giorno, o qualche settimana. Era completamente libero. Aveva queste reazioni anche con gli amici, non conosceva mezze misure.
Quando ho perso mio padre mi è stato molto vicino, avevamo un rapporto veramente stretto. E' venuto, proprio nei giorni del funerale, ad annunciarmi che stava per entrare in seminario. Da allora, quando rientrava a Padova da Possagno, la prima persona che andava a trovare ero io, all'Antoniana, e di solito aveva sempre bisogno di qualcosa… Credo che non abbia mai avuto neanche il taccuino, era fatto proprio così. Quando c’era qualcosa di particolare che gli interessava, o gli accadeva un fatto sopra la norma, io lo venivo sempre a sapere, perché con me si confidava; avevamo un'affinità intellettuale, nel senso di religiosità e di interessi.
Poi ci siamo persi per un po’ di vista, lui veniva ancora Padova, e ci si incontrava, certamente, però non più come da ragazzi: avevamo interessi diversi. Ma per me rimaneva un punto di riferimento. Se succedeva qualcosa, io la misuravo nel mio intimo al ricordo di Orlando; cosa avrebbe detto, cosa avrebbe fatto al posto mio… Orlando era sempre il perno, il punto di riferimento delle cose liete e tristi.
Come ha ripreso i contatti con noi, dopo tanti anni che non ci si ritrovava? Non me lo ricordo neanch’io. Ogni tanto veniva, si fermava un giorno o due. Restava a pranzo poi faceva un sonnellino lì per terra, si sdraiava sopra il tappeto in cucina e schiacciava un pisolino.
Della sua pittura ho sempre apprezzato l’astratta. Orlando aveva un concetto tutto particolarel della sua opera, almeno finché è stato a Noventa: faceva un quadro e lo regalava, o lo vendeva per comprarsi le sigarette, senza una pretesa artistica. Poi è arrivato al punto in cui sapeva di dare qualcosa di più importante, e ha avuto dei riconoscimenti interessanti.
A parlare di queste cose, immediatamente le sento vive, come se succedessero ora."
Ho saputo oggi che il 4 ottobre è venuto a mancare Orazio Fantini. Mi sentivo già leggermente in colpa per non averlo valorizzato a sufficienza in articoli e scritti vari, ora so di avere perso un’occasione. Era uno degli amici più veri di Orlando, uno della prima ora, silenzioso e discreto ma preziosissimo. Quando l’ho incontrato, nella sua casa di Padova, era gentile e amabile, anche se già segnato da problemi di salute che gli provocavano cali di memoria- uno nettissimo, accidenti, proprio quando gli ho chiesto di raccontarmi delle morose padovane di Orlando… Tipografo sopraffino, senza di lui non avremmo un libro come “Lallo e Mamo. L’identità invisibile”. Ma adesso basta, voglio lasciare la parola ad Orazio.
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