Martedì 2 febbraio terrò un reading di “Orlando Tisato. L’uomo, il pittore”; per una volta sarò in rilievo io, in qualità di scrittrice, e non Orlando. E così la persona di cui vi propongo la storia sono io.
Qualche tempo fa ho preso in mano un articolo de “La Squilla” in cui Orlando si esprime sulla sua “Trinità” della chiesa di Prato, a Spello:
Con Andrey Rublev ho soltanto un rapporto esistenziale.
Era un monaco. A modo mio; lo sono anch’io.
La spiritualità russo-ortodossa è statica.
Noi siamo francescani.
La mia Trinità danza.
Con S. Francesco abbiamo conosciuto Dio anche nel nostro corpo.
… E ci sono stigmate e stigmate.
Ebbene, posso testimoniare di avere assistito ai momenti nei quali Orlando elaborava il suo pensiero sul tema delle icone. Lui stesso ha realizzato, per un lungo periodo, soggetti legati alla Trinità: un divino banchetto a tre, intorno ad un tavolo circolare, sul modello di Andrej Rublev.
«Non ti voglio più, se fai tutte quelle smorfie!» si mise a ripetere Orlando, ma oramai aveva dato la sua parola.
Era giugno, ci sistemammo sotto il portico degli ‘zii’ Doriano ed Elisa, che ho descritto nella scena del libro in cui Nicoletta ritorna da scuola; io sedevo sulla poltrona di vimini, lui, in piedi con le spalle al giardino, dipingeva al cavalletto. Ero una quattordicenne sciatta e passiva, mia madre aveva, e avrebbe ancora avuto per parecchio tempo, l’abitudine di comprarmi tutti i vestiti. Quel giorno mi voleva elegante, secondo i suoi canoni, all’ 'inglesina’.
«Perché l’hai vestita di blu?» l’apostrofò Orlando, che aveva capito al volo la distribuzione dei ruoli. Quel blu scuro doveva dargli enormemente fastidio; erano gli anni in cui la sua creatività risentiva di disturbi, stava andando di nuovo fuori di testa.
Ricordo che posare era impegnativo ma non troppo, Orlando non pretendeva l’immobilità assoluta. E poi riuscivo ad assistere alla nascita del disegno; spiavo avidamente ogni suo gesto, anche se avevo abbandonato da tempo il mio sogno infantile di fare la pittrice.
Orlando mi parlava, di tanto in tanto, con quel buffo italiano pieno di parole dell’Italia centrale, che non c’entravano nulla con la sua pronuncia veneta:
«E il ragazzino ce l’hai?» mi chiese.
«No, a me quelle cose non interessano.»
Orlando saltò su punto sul vivo:
«Ah! Così mi rispondi!»
Ero sincera, ma sono sicura che non mi credesse, che pensasse volessi fare la santarellina.
Dopo poco lasciò i pennelli per entrare in casa. Ero un po’ dispiaciuta. Ritornò con un plico di fotocopie.
«Tu studi il francese, hai detto?»
«Sì.» risposi, orgogliosa dei miei ottimi voti.
«Leggi qua!»
Il testo era complesso, per me molto astratto, ricordo che parlava delle icone. Che fosse Pavel Florenskij?
«Lo capisci?»
«Sì.»
«Davvero?»
Orlando ritornò alla tela, mi guardò con aria seria e mi disse:
«Ti voglio fare come una scrittrice» e qualcos’altro del genere, che non ricordo. Sapeva che scrivevo poesie e ne aveva apprezzata qualcuna.
«Mi dispiace, ma io devo tornare a Spello. E poi forse stava diventando un discorso troppo serio.»
Voleva che mia madre mi lasciasse andare da lui, per completare il quadro. Figuratevi se me lo avrebbe mai permesso; il sogno di scappare di casa e presentarmi a vivere da Orlando ha accompagnato abbondantemente la mia adolescenza.
Un paio di anni prima che Orlando morisse, la zia Elisa recuperò il mio ritratto incompiuto, in cantina, pulendolo dalle ragnatele. Me lo fece arrivare tramite zia Lucia, che si raccomandò di appenderlo senza che lui venisse a saperlo. Si sarebbe arrabbiato sicuramente.
E così si trova sulla parete accanto a me, mentre sto scrivendo, la mia figura così scura per una quattordicenne, quasi funerea, su uno sfondo giallo limone. Chissà cosa sarebbe potuto diventare, eppure mi sembra che contenga già tutto.
L’icona della Trinità, invece, era un magnifico quadro che andavo sempre ad ammirare nell’Auditorium di Noventa Padovana; Orlando l’aveva realizzato pochi mesi prima, nello stesso 1992. E quando era tornato a casa abbandonando il mio ritratto, aveva scritto il suo articolo per la Squilla.