Ho intervistato Damiano nel 2012, in una delle sue frequenti visite all'Italia, che non sapeva smettere di amare. Era in compagnia di Peter, il maggiore dei suoi cinque figli. Non aveva ricordi precisi dei soggiorni di Orlando in Australia, ma estremamente dettagliati, se non crudi, sulla vita della famiglia.
A Ponte San Nicolò vivevamo in affitto, vicino ai padroni che avevano una casa grande, con una stalla. E là c’era un fosso dove, me lo ricordo bene, a quattro anni stavo per annegare… Il cane abbaiava, e mio fratello Gerlindo, che tornava a casa dal lavoro, mi ha visto galleggiare, mi ha salvato appena in tempo. Ricordo anche il nome di un'altra famiglia di contani, i Barzon, che stavano di là del fosso, a sinistra della strada che andava verso il ponte.
Il rapporto con Gerlindo, Colomba e gli altri fratelli maggiori.
Gerlindo andava al lavoro in bicicletta, tutti i giorni fino alla Stanga: una bella tirata! [“La stanga”, grande incrocio che congiunge il centro di storico di Padova alla periferia est; prende il nome, in origine, dalla stazione di cambio delle carrozze.] Poi ha acquistato una vespa, una delle prime, che anch’io ho adoperato per andare al lavoro. Era impiegato alla Viscosa, dove c’era già nostro fratello maggiore Luciano, ha fatto per un periodo il guardiano di notte e poi è finito a lavorare nella Valle Millecampi [tratto di laguna veneta tra Chioggia e Cavarzere]. Andavo a trovarlo al lavoro: non sapevo nuotare, e neanche lui, ma mi legava con una corda e mi buttava in acqua, finché facevano la compravendita del pesce e arrivavano le barche da Chioggia e da tanti altri posti. Di notte faceva il giro della laguna con altri due guardiani, pian pianino, ed io che non volevo stare a casa da solo li accompagnavo. Mi sistemava sul fondo della barca, e mi dava dei calci se non stavo in silenzio! Avevano una grande cucina dove cucinavano il pesce; io non lo mangiavo assolutamente, e allora sai cosa mi portava? Il tonno!
Colomba, invece, lavorava anche lei alla Viscosa, e partiva da casa con il tram della Veneta, Padova- Mestre-Venezia. Mi ricordo che era sempre in ritardo, allora la caricavo e correvamo dietro al tram fino alla stazione del cambio, oppure qualche volta rimanevano fermi ad aspettarla, perché la conoscevano! Poi c’erano Erminia, la più giovane, del 1922, Antonia era prossima, del ’18 mi sembra, e l’Ernesta… Eh, a quei tempi là ne morivano tanti da piccoli.
Quando me ne sono andato via solo Luciano viveva nella portineria alla Viscosa: eravamo tutti ancora là, in una casa grande, dei Bonfio, che avevano lì vicino la segheria. La Colomba non si è mai sposata, l’Ernesta ha sposato un Tomei di Noventana, l’Antonia ha sposato un Vettore di Noventa, Attilio, che viveva lungo la strada di via Cappello, li chiamavano “i Raffai”, e la Mima [Erminia] ha sposato Mario Cacco. E quando erano insieme, loro due, era bello vederli: era in gamba, Mario, era un gran ballerino.
I genitori
Papà faceva dei lavori importanti, specializzati, i contadini venivano a prenderlo apposta: incalmare, tagliare le unghie alle bestie, tutte quelle cose là. Però aveva il vizio del bere, era più spesso ubriaco che sincero, ma quando era sincero aveva un grande qualità nei lavori. Non andava mai a bere a Noventa, ma passava per un’osteria di Ponte di Brenta, chiamata “Paccagnella”, e quando arrivava a casa ubriaco lo sentivi già brontolare passando sotto il ponte dell’autostrada, giù per la stradella. Offendeva soprattutto le donne, degli uomini aveva ancora riguardo, ma per loro…
Mia mamma, poveretta, era una magnifica persona. Eravamo poveri, la vedevi arrivare dalla stradella che tirava tre o quattro rami di robinia, piena di sangue perché si faceva male. Questi i ricordi che ho di lei. Aveva un marito che era irresponsabile, se così si può definirlo, perché aveva quel vizio là.
Sai, avevamo tre anni di differenza: lui del ’26, io del ’29. Qualche volta per scherzo mi dava qualche schiaffo. Abbiamo giocato poco, io avevo i miei amici in piazza, dopo le lezioni di scuola. Lui era amico di un certo Baldan, Vasco, un po’ più vecchio di lui. Facevano teatro, ed ho incominciato anch’io ad interpretare qualche piccola parte, ad esempio nella “Vita” di San Francesco. Lui aveva un dono, era bravissimo nel disegno, io invece ero l’opposto.
Ho fatto i tre anni di avviamento, mentre Orlando non ha studiato, ha frequentato solo un po’ di Pietro Selvatico [l’Istituto d’arte] per disegnare, perché dimostrava queste capacità naturali, faceva bei lavori di pittura a olio, o anche ad acquarello. Aveva anche delle amicizie che lo aiutavano. Poi ha fatto il commesso alla “Palanca”, per andare dal Duomo sulla curva [Nel palazzo delle Debite, in piazza delle Erbe]. Era adatto a quel genere di lavoro, sì sì. Tant’è vero che gli volevano tanto bene, era scherzoso con tutti. Ma era un po’ debole di salute; quand’è stato più grande si è ammalato al polmone, era andato in seminario per diventare sacerdote, ma non gliel’hanno più permesso. Era in quelli che chiamavano “i Padiglioni”, il sanatorio, vicino all’ospedale. Ma si è rimesso ad ha anche avuto fortuna, perché a quei tempi là ne partivano tanti. Ma è andato tutto bene.
Apprendistato e partenza per l’Australia
Ho fatto la terza avviamento al lavoro, al Portello, per il lavoro di falegname e di meccanico. Soprattutto si limava, si lavorava con scalpello e martello: ti davano un pezzo di legno e lo facevi diventare una pialla. Ho tanti bei ricordi, ma dopo sono stato fortunato. Prima dei 14 anni sono stato preso per piacere da uno zio, che si chiamava Canton, caporeparto alla Stanga; questo è stato utile, perché quando sono arrivato in Australia, a 22 anni, esattamente nel 1952, mandavano via tutti i generici, la gente senza documenti di lavoro, mentre io avevo i cinque anni di apprendistato, quindi ho trovato subito un impiego. Ero tornitore, poi ho lavorato anche con altre macchine.
Quando è venuto il momento di partire, ricordo che la mia mamma si metteva sulla soglia ad aspettarmi, quando rientravo a casa, freddo o non freddo, anche d’inverno, e mi ripeteva: «Non vai mica via!» Il giorno della partenza aveva piovuto molto, l’acqua aveva portato via la tavola di legno che usavamo per attraversare il fosso ed entrare in casa. E ci siamo salutati in questa situazione; mi ricordo che lei teneva in braccio uno dei nipoti piccoli.
La prima volta che sono andato a Spello, Orlando aveva già incontrato questa signora [Lella], che era parecchi anni più grande di lui, ma è stata tanto brava a guardarlo, in un certo senso. Era una persona intelligente. Io mi sono trovato là gli anni dopo, era bello perché Orlando mi portava in giro a Spello, sopra e sotto, che era magnifico; soprattutto da sopra, [il Belvedere] vedevi la pianura. Aveva anche un pezzetto di terra che andava a lavorare lei, e lui aveva il suo studio, e lavorava, m’ha fatto vedere tanti lavoro di pitture… Aveva quel dono là, che sapeva anche copiare una persona e farla vedere proprio per quello che era, ecco. Come si può descrivere un dono?