Elfrida Gubbini mi ha raccontato queste cose alcuni anni fa, mentre visitavo il suo nuovo studio di pittura. Effettivamente le opere che ci circondavano erano ricche di colori smaltati, in una miriade di sfumature, delicatissimi.
«Lui lavorava soprattutto con il colore, molte volte ne abbiamo parlato. Ammirava tantissimo Piero Dorazio, che era per lui un teorico del colore, ma arrivava ad una concezione ancora più alta. Il colore non era un fatto legato alla semplice materia, diventava vibrazione e veicolo di qualcos’altro; altrimenti non avrebbe inserito nei suoi quadri quelle iridescenze, quelle pagliuzze che davano sensazioni altre. Ti spostavano fuori da quel colore, per poi rientrarci: viaggiavi attraverso il colore. Non era solo la messa a punto di due contrasti, ma un linguaggio personale, completo. Ha lavorato anche sull’oro e l’argento, che era in realtà l’astratto per eccellenza, la cosa più difficile da gestire, ma lui ci ha giocato su, mettendo a punto anche del materiale che nessuno avrebbe accostato. Quindi aveva anche molto coraggio.
Negli ultimi giorni, quando andavamo a trovarlo in parecchi, gli amici più stretti, dell’ambiente dell’arte, spostavamo il suo letto e lo mettevamo davanti alla finestra, in direzione dei monti. Diceva: «Io voglio stare qui.» Era forte di quel tipo di esperienza fatta tanti prima: se non avesse avuto quel tipo di esperienza con se stesso, secondo me, non sarebbe riuscito a restare da solo per tutte quelle ore. Invece lui era sereno, non intrattabile, e quando eravamo lì ci diceva: «Guarda le linee delle montagne… Guarda che verdi… Guarda che toni…» E mentre ti descriveva i toni, le linee, in quel momento stava dipingendo. La forza dell’arte era questa: l’aver raggiunto dentro di sé, comunque, con tutti gli alti e bassi , un continuo allenamento, andando dal nero al bianco, dalla luce all’ombra. In bilico continuamente, anche sfidando il rischio: era un temerario, non era uno che si risparmiava.»