Volevo e non volevo accettare, perché sapevo in che razza di impresa mi sarei cacciata. Un lavoro immane, e non avevo mai fatto niente di simile in vita mia. A me piace scrivere, ma qui si trattava di cercare, raccogliere, andare in giro. Avevo 32 anni, ma non avevo mai viaggiato da sola, o quasi.
Ho preso una delle agende che ci arrivano gratis ogni anno dalle banche o i sindacati (sono un’insegnante) ed ho incominciato a trascrivere i primi indirizzi di Spello, che mio padre aveva raccolto partecipando al funerale. Senza rispettare le date né la ripartizione delle pagine, non mi interessavano; in seguito ho scoperto che anche Orlando faceva così: riempiva facciate di nomi in base alla loro provenienza.
Un paio di mesi fa, quattro anni dopo, ho tentato di trascrivere un nuovo indirizzo, ma l’agenda era troppo piena, non aveva più una pagina vuota. Oramai i contatti si perdevano, anziché saltare fuori all’occorrenza. Ed ho compreso che era il momento di chiudere il lavoro, la biografia stava finendo.
Ricordo ancora l’emozione della prima volta in cui ho aperto l’agenda davanti a me ed ho chiamato al cellulare il mio primo contatto. Era un pomeriggio tardo di novembre, stavo seduta sul divano del salotto e tenevo le gambe bene unite, le suole dei piedi ancorate al pavimento. Come se dovessi alzarmi subito, non appena dall’altra parte mi avessero detto che mi aspettavano, per incominciare. Contattare persone che conoscevano il tuo prozio, ma per cui tu sei una sconosciuta, è paralizzante se ti fermi troppo a pensarci, ma per fortuna quella prima persona mi ha capito e ha detto che il mio intento era lodevole. Così mi sono preparata a partire per Spello, che in quel momento mi appariva come un campo aperto, pieno di neve. Un grande vuoto bianco da riempire, eravamo appena agli inizi.