Con i bambini di Santa Luciola, 2005. Ph Sante Castignani
ORLANDO E L’EDUCAZIONE
Non sono un professore- non ho titoli- non ho frequentato scuole. Ho frequentato soltanto e con difficoltà le elementari.(…) I miei maestri li ho avuti in dono, non li ho mai cercati.
Nel gioco del bambino c'è la serietà più profonda-vera -dell'uomo. Il bambino non butta via il suo tempo, diviene uomo giocando, scoprendo la realtà, ma liberamente, con un'integrità direi quasi assoluta. Basta vedere i disegni e le pitture dei bambini che ancora non sono stati a scuola per capire chi è l'uomo.
Io penso alla scuola italiana: tentano di fabbricare uomini, non di educare. Educare vuol dire “tirare fuori” il profondo dall'essere umano; invece la fabbrica è quella che si preoccupa di fare pezzi, pezzi da montaggio intercambiabili.
L'educatore deve incarnare i grandi concetti, ma nella maniera semplice: cos'è una stella? È una lampadina? Che cos'è un fiore? E che ti dice un fiore, che cos'è il sole? E l'hai visto il sole al tramonto? Nessuno ti ha detto che vedere il sole al tramonto vale più dei film, della TV e di tutti i teatri del mondo?
Parole, libri imparati a memoria per fare gli esami dal professore, e sono professori che poi ti uccidono. Sono fabbricanti di uomini, ma di uomini fatti come pezzi di ricambio. Io li odio questi educatori! Che Dio mi perdoni, ma veramente fanno male al povero Cristo.
Il maestro del giardino è Carmelo Petrone, padre del futuro amico di Orlando Eugenio, educatore rigido ma sostanzialmente buono nei confronti degli alunni. La sua bacchetta era coperta da una punta di gomma, per evitare di fare del male a qualcuno. Più propenso alle maniere forti il maestro successivo alla seconda bocciatura, di nome Di Stefano:
… Finalmente trovai un maestro che, invece di mandarmi in giardino, si levò la cintura dei pantaloni e me la fece sentire. Da quel giorno io diventai Orlando, nel senso che presi coscienza e incominciai la scuola. Ma avevo difficoltà con la matematica, la odiavo, i miei quaderni erano pieni di disegni. Per arrivare in quinta elementare mi ha salvato l'italiano, lo scrivere i temi. Nasceva una persona, l'artista nasceva, nasceva una vocazione. La mia.
In novembre sono arrivato a Venezia, con l'inizio delle scuole di Teologia, e subito ho chiesto di farmi padre.
Io sono arrivato a Venezia che avevo lo stomaco a pezzi, c’erano i polmoni che stavano staccandosi. Un altro mio compagno di noviziato, che era già diventato prete, mi ha portato con una vecchia macchina Olivetti ,di quelle pesanti di una volta. Avremmo fatto due chilometri di strada a Venezia, su e giù per i ponti, quando siamo passati per una delle piazze vicino all'Accademia: c'era una mostra di Seibezzi, un bel pittore veneziano. Ho buttato dentro la testa, e quello m'ha fatto subito un cenno: per paura che perdessi la vocazione.
Ho fatto tanto l'imbianchino in convento, quelli mi facevano lavorare invece di farmi studiare e magnà. Mentre tinteggiavo cantavo a squarciagola. dall'alba al tramonto, ma quando arrivavo a sera ero proprio de cartelon, e mi tenevano ancora lì sul banco fino a tardi, perché dovevo anche studiare… Una sera sono entrato in camera e, invece di mettermi a letto, mi sono disteso per terra; quando sono arrivati gli altri, che avevano i letti uno accanto all'altro: “Ah!” hanno preso uno spavento.