Il padre di Vittoria, Pietro Rizzato detto Bagareo, dal cognome della madre, Bagarello, aveva ereditato delle terre nella contrada, e le coltivava ad orti.
«A Padova c’era un negozio che vendeva l’onore… Sarebbe bello, comprare e vendere l’onore, sai che roba?»
L'aia di casa "Bagareo" non aveva con la casa un dentro e un fuori, tutto era aperto. Un secchio d'acqua ti poteva cadere sulla testa, dall'alto; c'era il sole pareva un temporale. Gli orti del nonno, incredibilmente ordinati, pietruzze romane e i mosaici del Torcello. Attorno al pozzo, ceste dell'insalata, pronte alla sera per essere sulla Piazza delle Erbe, in città, domani mattina. Tutto era provvisorio, mutevole, uguale. Legato con lo spago, era rimasto così, da secoli. Alla sera, sotto il moro, seduti sul vecchio tronco caduto, avevamo, tutto per noi, il nonno. Bello come una leggenda. Ciascuno lo voleva per sé. Parava via le mosche con la mano, ma con quel gesto, pareva cercasse, più lontano, una storia. Nella pace della sera il nonno mi pareva più bello di una statua di Arturo Martini. Non Tito Livio, il Palinuro. Nonno era un musico della parola. Aveva cantato, fino a qualche anno prima, nel coro della Basilica del Santo. Io ero di passaggio e sul finire del giorno conoscevo la nostalgia. I cugini erano a casa loro. Uno alla volta, si allontanavano. Sparivano e in quel vuoto momentaneo avvertivo la solitudine del vecchio, nelle sue parole. Non erano più racconti, ma nomi di cose. La luna, le semine, il radicchio, i cavoli, l'insalata. Le sementi erano appese dentro sacchetti di tela, sotto la trave del portico. La camera dei nonni aveva la porta sempre aperta. I muri di mattoni cotti al sole, rivestiti di intonaco a calce. Un grande letto con il saccone di canapa riempito di foglie di granoturco. Così da sempre. Le lenzuola erano bianche di cotone, passate con la cenere. La nonna piccola e malandata occupava poco posto. Alla fine, è questa la misura dell'uomo? L'odore dei loro corpi mi riportava ai tumuli antichi: sudore, cipolla, olio e rosmarino.