Di lui ricordavo con chiarezza una mostra di pittura a Noventa, a cui avevo assistito nel periodo delle scuole elementari: tele di gabbiani bellissimi, immersi nel grigiore. E lui, che mi faceva paura, perché mi avevano detto che aveva le mani finte… Intendo dire, mi avevano raccontato del suo incidente da bambino, raccogliendo una mina come spesso accadeva nel dopoguerra, e che quei guanti neri coprivano una protesi. Un signore dalla folta chioma riccia e l'aria seria, come lo sfondo dei quadri, così drammatico.
Ci viene ad aprire nella sua villetta, dietro l’angolo del caos della zona Stanga-Pio X: ha una bellissima facciata, con il giardino e la veranda. Stretta vigorosa di mano alla sua maniera: mi stritola a tenaglia tra il gomito e il moncherino.
“La pregherei, se può evitare, di fare riferimento a questa mia caratteristica.”
Giusto, signor Galuppo. Incominciamo l’intervista, sfogliando il libro di Orlando del 1998 Lallo e Mamo.
“Orlando non era un francescano. Sennò non avrei detto dandy, sarebbe stato un controsenso. Orlando era un individualista di prima forza. Della socialità non gliene importava niente. Lui amava Francesco per gli insegnamenti, non lo era sicuramente. Ha sempre mirato ad essere al di sopra della media, ed è un'aspirazione che abbiamo un po' tutti, solo che un conto è farne una religione, e lui ne aveva fatto un po' una religione.
Era dandy nel senso che voleva fare della vita un'opera d'arte?
Sì. In questo senso sì, certo. Tutta la sua esistenza si è ispirata a questo atteggiamento, da quando l'ho conosciuto io, anche se umilmente andava a spostare i quadri alla Biennale Veneta, ecc.. Lavorare.. Pensi che la prima mostra a Venezia, l'abbiamo portata in pullman con due bastoni... Otto quadri a testa, i bastoni grandi, i quadri legati sotto, da piazzale Roma fino a San Vidal. La nostra personale alla San Vidal del 1959. .E i professori dell'Accademia di Venezia mandavano gli studenti a vedere la mostra dei “campagnoli”.”
Prima diceva che lei e Orlando condividevate il concetto dell'arte. Mi può parlare un po' di questo?
E' una cosa difficile. Non è semplice. Noi crediamo che l'arte non sia un imbroglio. Uno può fare l'astratto, il figurativo; uno può essere di ascendenza tradizionalista e diventare pittore estremamente moderno, e uno può partire dal moderno, ecco. Partire da dove si dovrebbe arrivare per noi era un imbroglio... Io per fortuna sono rimasto un pittore figurativo, lui è andato in un'altra direzione, però né io né lui abbiamo mai pensato di imbrogliare: si fa quello che si crede, quello che per il quale si vive che ne vale la pena di fare. Questo per noi è il concetto dell'arte. Orlando qualche volta… mm...ti diceva le cose... Non che volesse esagerare o meno, non sempre si ricordava esattamente quello che aveva fatto, poi mischiava una cosa assieme a un'altra cosa e faceva un po' di confusione. Mai in pittura! In pittura lui ha sempre avuto un ideale, era arrivato. Provi ad aprire il libro... Ecco. Questo periodo qui è il periodo che ricordo con molta gioia perché era il periodo in cui lui si stava liberando dalla pittura originaria sua... Questo era un momento particolare, nel senso che usava molta materia, poi la velava, e poi scavava, in modo di trovare l'ultimo dei colori, o il penultimo dei colori, e questo in qualche modo... lui non lo sapeva ancora, ma, dopo l'abbiamo saputo, precedeva il filo, che andava oltre, e l'intento era partire da qui.
Mentre parlo, mi interrompe: “Ma gliel’ho già detto che ha una bellissima voce?”
Mentre parla lui, invece, io penso: “Non conosco assolutamente chi sia stato mio zio.”
Al termine dell’intervista ci accompagna al piano di sopra, per farci vedere i suoi quadri: ne ha dipinti più dei 7000, li tiene quasi tutti in casa, impilati con cura, e per prelevarli utilizza un sistema di leve e corde.
“E’ bravo veramente, a dipingere così» commenta mio padre, ammirato.
“Le faccio subito il mio autoritratto.”
Pennello stretto tra gli avambracci, traccia sul piano del tavolo una figurina barbuta e arruffata com’è lui.